Due giornaliste, con alle spalle 20 anni di ricerche biografiche, hanno deciso di concentrarsi sul variegato mondo femminile, così poco studiato fino a non molto tempo fa e che la storia ha spesso relegato nel dimenticatoio...

giovedì 19 novembre 2015

Maria CIARRAVANO

di Barbara Bertolini e Anna Maria Cenname

(Salcito (CB) 1904 – Bologna 1965),  anarchica, confinata dal fascismo nelle isole di Lipari e Ponza


Tra le poche anarchiche mandate al confino durante il Ventennio fascista spicca la figura di una molisana di Salcito, Maria Ciarravano. Perché questa donna, di modesta estrazione, viene ritenuta così pericolosa da essere inviata in esilio prima nell’isola di Lipari e poi in quella di Ponza, la destinazione più dura riservata agli irriducibili?  Per scoprirlo bisogna ripercorrere la sua movimentata  vita.

Nata il 19 aprile del 1904 da Valerio e Vincenza Donatone, è terza di sette figli. Il padre, scalpellino, con il suo modesto lavoro non riesce a sfamare la famiglia e decide di emigrare. 
Salcito

Salcito,  all’inizio del ‘900, è un piccolo borgo di circa 3000 abitanti: una terra avara che costringe un quarto della popolazione ad abbandonare il paese entro la fine degli anni ’20 per cercare fortuna altrove, come la famiglia di Maria che approda nella capitale.  
A Roma, nello stabile abitato dai Ciarravano,  Maria incontrerà il futuro marito. La ragazza, infatti, mentre si reca presso una sarta per imparare il mestiere incrocia spesso un giovane che la guarda con insistenza. Si tratta di Sergio Di Modugno venuto con la famiglia dalla Puglia.  I due finiscono per innamorarsi; nessuno si oppone al loro amore e la coppia prima si fidanza, poi, nel 1924 si sposa.  Maria non immagina nemmeno per un istante che quell’unione sarà foriera di gravissime difficoltà per lei e il figlio partorito poco dopo il matrimonio.

Il marito, Sergio Di Modugno, nasce a Cerignola e, fin da ragazzo,  partecipa alle lotte sindacali e ai moti rivoluzionari seguiti dopo la Grande Guerra diventando, insieme al fratello, un fervente antifascista.  La strage di Cerignola del 1921 in occasione delle elezioni, ad opera di fascisti, e in cui muoiono ben 9 lavoratori, costringe Di Modugno a rifugiarsi a Roma. Anche nella capitale, Di Modugno continua la sua attività di agitatore politico. Nel 1925 viene fermato per l’ennesima volta assieme ad altri operai, poi rilasciato, ma sottoposto a rigida sorveglianza. Dopo l’attentato di Bologna e le conseguenti introduzioni delle leggi speciali fasciste decide l’espatrio per sfuggire all’inevitabile confino politico.  
Maria, ragazzina sveglia, coraggiosa e intelligente, nei tre anni trascorsi con il marito ha vissuto in prima persona le sue lotte, assorbendo come una spugna gli ideali di libertà, e sa quindi che Sergio non ha altra scelta. 
All’inizio del 1927 l’esule varca clandestinamente la frontiera e vagabonda per l’Europa prima di stabilirsi a Parigi dove riesce a trovare, alla fine di marzo dello stesso anno,  un lavoro presso un cementista e dove si dà da fare per farsi raggiungere dalla moglie e dal figlioletto.

Quello che farà vacillare il destino dei due sposi succede a Parigi il 13 settembre del 1927, data in cui la storia di Maria e Sergio s’intreccia con la grande storia dell’antifascismo italiano. Di Modugno, che si era recato presso il consolato italiano per farsi rilasciare il passaporto che avrebbe permesso a sua moglie e a suo figlio di raggiungerlo, all’ennesimo diniego del vice-Console, folle di rabbia, gli spara e lo uccide con due colpi di pistola, precipitando subito dopo, in una grave crisi epilettica che gli impedisce qualsiasi interrogatorio, tanto che viene rinchiuso dalle forze dell’ordine francesi nel manicomio criminale della città.
Sul “Corriere degli italiani” del 14 settembre 1927, che si pubblica a Parigi,  in prima pagina un trafiletto annuncia la morte del vice-console Carlo Nardini per mano di un connazionale,  mentre una “Lettera aperta al ministro Scialoja firmata dalla “Rédaction du Corriere degli Italiani”, lamenta le condizioni dei rifugiati politici. In quel periodo, tra l’altro, i fuoriusciti italiani accusano Mussolini di maltrattare in Italia le loro famiglie e lanciano, non troppo velatamente, un monito ai fascisti, dicendo loro che le famiglie sono sacre così come sono sacri i deportati e che accanirsi contro gli indifesi è un atto di viltà tale da far presagire la vendetta  sia per mandanti  che per esecutori. E, guarda caso, proprio questa minaccia sembra trovare il suo epilogo nella morte del vice-console.

 Il “Corriere degli italiani” del 15 settembre, a firma di G. A. Grimaldi, analizza più dettagliatamente l’omicidio di Di Modugno che, secondo lui, non sembra un’azione pianificata, ma piuttosto il frutto della collera da parte del pugliese che non riusciva ad ottenere il passaporto per la moglie. Ed è proprio l’assassinio del vice-console   ̶  sostiene il giornalista  ̶  a dimostrare al mondo latteggiamento persecutorio del regime fascista verso le famiglie dei fuoriusciti. Infatti  ̶  dice  ̶   Di Modugno, involontariamente, col suo folle gesto da disperato, ha richiamato l’Umanità distratta sul problema delle famiglie dei rifugiati politici, tenute in ostaggio da Mussolini”.
Giuseppe Di Vittorio

A questo punto entra in scena una figura molto importante dell’antifascismo italiano a Parigi. Si tratta dell’onorevole Giuseppe Di Vittorio. Anche lui di Cerignola, figlio di braccianti agricoli, prima socialista poi comunista,  è uno dei personaggi più rappresentativi delle lotte sindacali pugliesi. Eletto deputato nel 1921 mentre è in carcere a Lucera, è successivamente condannato dal tribunale speciale fascista a 12 anni di prigione. Nel 1925 riesce a fuggire in  Francia. Ed è a Parigi che ritrova il compaesano Sergio Di Modugno, di cui conosceva bene anche la famiglia. La stampa fascista, a causa di questa provata frequentazione,  lo accusa di essere tra i mandanti dell’assassinio del vice-console. L’ex deputato del parlamento italiano scrive una lettera aperta al “Corriere degli italiani” per discolparsi di questa infamante accusa. E precisa:

«[…] E’ noto a tutti che Di Modugno non fa parte del mio partito. Le insinuazioni della stampa fascista non resistono alla logica più elementare. […] Conosco l’operaio Di Modugno da molti anni, come conosco quasi tutti i lavoratori pugliesi, fra i quali ho svolto per oltre 15 anni la mia attività di organizzatore. Conosco tutte le persecuzioni sofferte dal Di Modugno sia da parte dei fascisti che della polizia. Nulla di straordinario e di misterioso quindi, che Di Modugno, una volta rifugiatosi a Parigi, aveva pensato di venire a trovarmi, cosa che mi ha permesso di conoscere le pratiche legali da lui svolte per ottenere il passaporto per sua moglie. Posso assicurare che il Di Modugno, operaio laborioso, dopo il lungo periodo di persecuzioni e di miserie sofferto in Italia, ad altro non aspirava che a vivere finalmente in pace con la moglie e con la sua creatura che egli adorava appassionatamente». Sempre da questa lettera scopriamo che Sergio di Modugno, sperando nell’arrivo imminente della moglie e del figlioletto prende alloggio nello stesso albergo dei Di Vittorio che precisa: «[…] mi spiegò che avendo ottenuto tutti i documenti legali necessari per far rilasciare il passaporto a sua moglie  era ormai sicurissimo, felice ch’ella sarebbe venuta. E perché sua moglie, straniera e ignara della lingua avesse una compagnia, almeno nei primi tempi, prese alloggio nello stesso albergo in cui abitava la mia famiglia».
Dal processo intentato al pugliese, si viene a conoscenza anche delle lettere che i coniugi si scambiavano sotto falso nome.
 Mentre a Parigi vanno avanti le udienze, la molisana viene arrestata e accusata di condividere le idee politiche del marito nonché di svolgere attività politica. Non solo non può raggiungere Sergio in Francia ma è assegnata al confino il 10 ottobre del 1927, per ben cinque anni, dalla Commissione Provinciale di Roma. Giungerà a Lipari il 19 novembre  dello stesso anno.  A raccontarci la sua storia sarà un altro anarchico, il veronese Giovanni Domaschi, che ha trascorso quasi tutto il ventennio fascista in esilio o in galera, prima di essere deportato in Germania dove morirà.
Racconta Domaschi:
 «Venne confinata per cinque anni e relegata nell’isola di Lipari la compagna Maria Ciarravano, giunse con un caro bambino di tre anni. Era molto patita per la prigionia sofferta e le avversità del viaggio ma di natura ardita. In seguito potei conoscere la bontà del suo cuore e la fermezza del suo animo. Ci conoscemmo come fratello e sorella e poi l’amore è divenuto più intenso e prese una piega intima come quella che si nota tra marito e moglie; insomma ci siamo innamorati reciprocamente senza degli altrui consensi, pareri o contratti  indicati dalla vecchia e putrefatta società capitalistica.»  Continua il veronese nel suo diario con idee decisamente in anticipo sulla società bigotta del suo tempo: «Quando due esseri di sesso diverso si amano a che serve il rito del Sindaco? A cosa servono le funzioni del prete, o la critica dei vicini non ancora spogliati dai pregiudizi borghesi?». Conclude Giovanni Domaschi:  «Per vivere bene tra marito e moglie è l’amore, il rispetto reciproco che deve trionfare, l’amore sentito nel vero senso libertario della parola, non i legami della legge.»
Come racconta nel suo libro Emilio Lussu, i viaggi dei deportati erano davvero allucinanti:   «Ammanettati e congiunti fra loro da lunghe catene, in piroscafo, sono messi nelle stive, accanto al bestiame; in treno, nei vagoni cellulari. Il vagone cellulare è una specie di carcere mobile, rivestito d’acciaio. D’estate gli scompartimenti metallici, infiammati dal sole, diventano fornaci; d’inverno sono perfette celle frigorifere».
Quando arriva nell’isola,  Maria ha solo 23 anni e, nelle varie prigioni dove è passata prima di giungere al confino, è stata maltrattata, insultata dai sicari fascisti messi in guardia dai fuoriusciti nella loro lettera parigina. Si sente desolatamente sola. Ha perso qualsiasi riferimento, qualsiasi appoggio ed ha un figlioletto da proteggere. Dopo tanti visi torvi, tante cattiverie, trova qualcuno che la guarda con occhi compassionevoli e, prima che nasca l’amore, inizia fra lei e il Domaschi un rapporto fraterno, di amicizia, che gratifica entrambi.  Giovanni Domaschi è descritto da quasi tutti i suoi compagni come un uomo intelligente, gioviale, profondamente buono e con un senso altissimo della dignità personale. Egli ha lasciato a Verona due figli. Si era sposato nel 1918 e  separato dalla moglie dal 1925. In quell’isola lui e Maria si sentono come dei naufraghi, lontani da qualsiasi affetto, e la molisana non può sperare nemmeno di ricevere lettere dal marito perché Sergio è stato tagliato fuori da tutto. I due amanti  sono cuori disperati che trovano consolazione l’uno nelle braccia dell’altro.
Giovanni Domaschi
La molisana, appena arrivata, si prende cura del veronese colpito da liparite, un’infezione che  si prendeva  solo in quell’isola e che costringeva le persone a letto con febbre alta per  qualche giorno. Si offre di cucinare e, poco a poco, come dice Giovanni: «Eravamo ad un momento che non si poteva vivere insieme senza che l’alito dell’uno non vibrasse nel cuore dell’altro.»
 La Ciarravano mostra subito un carattere intraprendente e deciso. Infatti, nell’isola protesta con le autorità perché le viene data con ritardo la "mazzetta", ovvero la paga settimanale che consente ai deportati di sopravvivere. Per questo viene arrestata il 31 dicembre 1927con l’accusa di oltraggio.
La lamentela è una sua iniziativa personale che lascia stupito lo stesso Domaschi, il quale commenta: «se l’avesse detto anche a noi, forse avremmo fatto altrettanto». La Ciarravano è condannata il 14 gennaio 1928 dal pretore di Lipari a 15 giorni di arresto, ma è quasi subito liberata. In quello stesso tempo sta per vacillare la sua nuova unione. Giovanni Domaschi, il primo gennaio di quell’anno, riesce, infatti, ad ottenere il permesso di raggiungere a Verona la mamma morente. Dieci giorni di congedo che gli consentirebbero di mettere a segno la fuga verso la libertà. Infatti, a casa incontra molti amici che lo esortano a riparare all’estero. Ma lui esita perché dalle   conversazioni avute e da quello che vede a Verona, il fascismo è con il fiato corto e, fuggendo dalla patria, diserterebbe l’inevitabile battaglia finale. Ma probabilmente il pensiero più grande è Maria, lasciata a Lipari e che non potrebbe più rivedere.  Dirà poi che si era ingannato, che nessuno allora pensava che il popolo italiano avrebbe sopportato un tale regime così a lungo.
 Intanto, il 18 gennaio sbarca di nuovo a Lipari dove ritrova Maria e il caro bambino come chiama Icilio, il figlioletto di tre anni della molisana di cui si era preso cura prima della sua partenza.  Icilio sarà un raggio di sole nella vita di quest’uomo, che lo amerà come se fosse sangue del suo sangue.
Maria è già stata scarcerata ed è quindi un giorno di festa per questa nuova famiglia.  Però, poco dopo il suo arrivo, Domaschi, tradito da un compagno,  viene arrestato e rinchiuso in prigione su ordine della questura di Verona che gli contesta vari reati commessi durante il congedo.
Mentre è in carcere la molisana va spesso a trovarlo e lo informa di tutto e con tutti  Domaschi riesce a corrispondere, grazie a bigliettini che vengono inseriti da Maria nella biancheria che porta regolarmente durante le sue visite. La giovane sfrutta la sua professione di sarta per nascondere con cura la corrispondenza. Ma il mestiere le serve anche per integrare la magra paga poiché può svolgere lavoretti di cucito per molti confinati, in maggioranza uomini. E quando la biancheria non basta più perché viene controllata anche quella, Maria manda Icilio, il suo bambino che un carceriere, grazie a una mancia, lascia entrare. Icilio dice Giovanni «mi faceva passare dei buoni momenti, mi distraeva il pensiero dalle cose tristi e mi recava le notizie della mamma. Cucita nelle sue sottovestitine il caro piccino mi portava  la corrispondenza di Maria e con lo stesso mezzo facevo recapitare la mia a lei». Sarà Icilio a portare al veronese, nascosto nei suoi giocattoli, il necessario preparato dalla mamma per la sua futura evasione. L’indomito Domaschi dalla galera lipariana, con l’aiuto della molisana, e di altri compagni, prepara infatti la fuga. Sono quattro confinati pronti a tentare l’avventura, tutti rinchiusi nello stesso carcere. Anche Maria vuole essere della partita. Scrive a Giovanni che affiderà provvisoriamente il bambino a sua sorella, giunta anche lei da poco nell’isola perché il marito vi è confinato. 
 Tutto è stato verificato nei minimi dettagli e nelle primissime ore della sera del 20 luglio 1928 Domaschi e un certo Alfredo Michelagnoli, con passepartout fatto arrivare da Maria, liberano gli altri due ergastolani, Giovanni Battista Canepa e Mario Magri, rinchiusi in un’altra cella. Escono dal carcere scavalcando il muro di cinta. Tutto bene. Fuori dall’abitato li aspetta Maria, vestita da uomo, che Giovanni fa fatica a riconoscere. S’incamminano verso la montagna oltre la quale c’è il porticciolo di “Canneto”, ma poco dopo sentono il “chi va la?” delle sentinelle, attirate in quel luogo dall’abbaiare dei cani.  Maria, Canepa e Michelagnoli, che si trovano più indietro, poiché non sono stati visti dai militi, si disperdono. Domaschi, vestito da prete, e Magri da donna, rispondono che sono gente di Lipari. Le sentinelle abboccano e li lasciano passare. E qui, Giovanni e il compagno commettono l’errore di aspettare gli altri, senza andare speditamente nel luogo dove li attende una barca.  Maria non verrà e nemmeno i due compagni.  Quando essi si rassegnano a partire è ormai troppo tardi, la barca non c’è più. I due fuggiaschi si nascondono nell’isola, come gli altri due, ma saranno tutti presi nei giorni successivi, meno Maria che era ritornata a casa senza farsi notare.
Quel via vai delle pattuglie, le flottiglie di navi di sorveglianza messe in campo alla ricerca degli evasi, sono osservati attentamente da un altro gruppo di confinati che approfittano di questa fuga non riuscita per mettere a punto la propria.  Si tratta di tre illustri deportati politici:  Emilio Lussu, Carlo Rosselli e Francesco Fausto Nitti. I tre riusciranno, dopo vari tentativi andati a vuoto, a raggiungere prima la Tunisia con un motoscafo appositamente giunto dalla Costa Azzurra e poi la Francia nel 1929.
Pochi giorni dopo l’arresto Domaschi e compagni sono trasferiti a Milazzo - uno dei carceri più disumani - in attesa del processo.  In quel carcere Maria, malgrado tutto, trova il mezzo di fargli arrivare un cappello con visiera dove, con bravura, è riuscita a nascondere i soldi e la sua corrispondenza e a inviare anche del sapone con in mezzo due seghetti. Purtroppo durante l’ispezione il sapone cade a terra e si spacca svelando alle guardie il suo contenuto. La molisana si assume l’intera responsabilità dell’azione, scagionando la persona che li aveva portati. Accusata di complicità con gli evasi, viene immediatamente trasferita a Ponza.
Il cinque di ottobre del 1928, però, ha luogo a Messina il processo per evasione. Maria è presente con il figlio. Dopo i preliminari l’avvocato degli anarchici, ad una osservazione del pubblico ministero riguardo a Guidi che, secondo lui, non può essere considerato un detenuto politico in quanto responsabile in precedenza, a Bologna, dell’omicidio di un fascista, risponde a tono, dichiarando l’anarchico persona più degna del carabiniere che alcuni giorni prima aveva aggredito la Ciarravano tentando di separarla da suo figlio. In quel preciso istante Icilio scoppia a piangere disperatamente. Dice Canepa: «Non c’era verso di calmarlo, come se il ricordo di quel che era successo ancora lo sconvolgesse […] e la confusione provocata fu tale, col pubblico che rumoreggiava […], che il Presidente non trovò di meglio da fare che sgomberare l’aula e sospendere l’udienza. Fu allora che ci rendemmo finalmente conto della causa effettiva di quel pianto non appena l’avvocato aveva rievocato il triste episodio, quella birba di Magri aveva piantato uno spillo nel deretano del bimbo, e ciò aveva provocato tutto quel pandemonio».
Lo stesso Canepa, nelle sue memorie, racconta una coincidenza davvero fortunata. A Parigi, in  effetti, contemporaneamente a questo processo, si sta volgendo quello di Sergio Di Modugno e un giornalista svizzero, richiamato a Messina dal fatto che alla sbarra ci sia proprio la moglie dell’anarchico,  racconta con dovizia di particolari, in un articolo che viene pubblicato in Francia, dei maltrattamenti subiti dalla donna. Questo fatto, fra gli altri, contribuisce a far ottenere al Di Modugno il massimo delle attenuanti. La sentenza per il pugliese sarà, infatti, di soli due anni di carcere per l’uccisione del funzionario pubblico.
Nel processo messinese, invece, Domaschi, Magri e Michelagnoli saranno condannati a quattro mesi di carcere, Canepa a otto mesi e venti giorni e Maria a tre. Giovanni dovrà ritornare a Roma, deferito al Tribunale Speciale, mentre Maria e gli altri dovranno raggiungere Ponza. Il lungo viaggio da Messina a Napoli che tutti i detenuti fanno insieme è l’ultima occasione per vedersi. Racconta di quel trasferimento il veronese:
«Confesso che, nonostante le manette che mi stringevano i polsi, malgrado tutto, avrei desiderato che il viaggio fosse ancora più lungo: la compagnia mi faceva dimenticare tutti i dolori, trovandomi insieme con la Ciarravano e con Icilio dopo parecchi mesi che non li vedevo per me era la più grande gioia che in quel momento potessi avere».
Domaschi tenterà ancora la fuga dal carcere di Milazzo, con un altro detenuto, sempre con l’aiuto di Maria, grazie alla corrispondenza che era riuscito a farle avere. Per una serie di varie vicissitudini, anche quella fuga attraverso la Sicilia verrà interrotta.
L’ultima volta in cui parla di Maria, come di «colei che ricordo ancora» è in una lettera  inviata alla sorella Rosa dal carcere di Fossombrone nel 1930.
Domaschi riuscirà a fuggire nei giorni convulsi che seguiranno l'8 settembre e, ritornato a Verona, entra nel secondo Comitato di liberazione nazionale cittadino. Svolge attività nella Resistenza fino alla cattura dell'intero CLN e alla deportazione in Germania, nell'estate 1944. Muore nel campo di concentramento di Dachau nel febbraio del 1945.
Cosa è successo a Maria nel frattempo? A Ponza la molisana ha molte difficoltà a rimanere in contatto con Giovanni poiché tutti e due sono controllati con incessante e scrupolosa attenzione, soprattutto dopo la seconda fuga del Domaschi.  Il ruolo di “vedova bianca” non si addice a questa ragazza  audace e dinamica che quando arriva nel suo secondo esilio ha già vissuto una vita piena di travagli ma che, in effetti, non ha che 24 anni. Nell’isola pontina il suo destino si lega con quello di Lodovico Zambroni, fratello di Anteo, responsabile dell’attentato di Bologna del 1926 a Mussolini.  Egli s’innamora perdutamente della molisana tanto da sfidare la propria famiglia preoccupata delle conseguenze di un rapporto con una donna più grande di lui, per di più sposata e con un figlio.   Il loro legame va avanti, malgrado tutto. Si sa che la giovane subisce un aborto spontaneo, il giorno dopo il suo arresto, avvenuto il 24 marzo del 1930 su mandato di cattura del pretore di Lipari, per il reato di favoreggiamento nell’evasione di alcuni confinati. Intanto le voci sui suoi “tradimenti” sono arrivate anche a Di Modugno, che nel frattempo è stato liberato in seguito ad una campagna promossa dagli ambienti dei fuoriusciti e espulso dalla Francia. Sergio, tramite una lettera, invita la moglie a consegnare alla sua famiglia a Cerignola il figlio Icilio. Ma Maria non acconsente poiché ritiene che l’ex marito non ha molto da offrire al bambino e che non può venire a prenderlo in Italia….

Nell’agosto dello stesso anno Lodovico tra tensioni familiari, violenze psicologiche e i problemi della compagna a seguito della perdita del bambino, viene ricoverato d’urgenza all’ospedale psichiatrico di Napoli per squilibrio mentale. Ripresosi dal suo stato psichico, dopo aver fatto insieme ad un fratello, Assunto, anche lui confinato, un «leale e spontaneo atto di sottomissione» al regime fascista, viene liberato  il 9 novembre.
Prima di lasciare Ponza, Lodovico aveva consigliato a Maria, che  il 19 luglio del 1930 era stata dimessa dal carcere dopo aver scontato la pena per i fatti di Lipari, di presentare come lui,  atto di sottomissione  al regime di Mussolini e istanza di proscioglimento dal rimanente periodo di confino. Il bolognese, per sicurezza, aveva scritto lui stesso la domanda.
Ma ci vorrà ancora altro tempo prima che la molisana  ottenga il ricongiungimento a Lodovico.
Ormai tutta la sua energia è messa in questo intento. Varie istanze sono presentate da lei, da sua madre e da suo padre, senza esito.  Quella del 27 gennaio 1931, fatta seguire da una seconda il 5 febbraio, probabilmente su suggerimento del fascista Arpinati a cui la Ciarravano si era rivolta,  riceve infine parere favorevole.
La proposta è accolta e il confino, come suggerito da Lodovico, sarà tramutato in un biennio di ammonizione. Il 27 febbraio parte per Salcito, il paese dei suoi genitori.
Non passa nemmeno un mese e presenta istanza formale per raggiungere Lodovico ad Alessandria. Lodovico Zamboni, dopo un soggiorno a Bologna presso la famiglia che continua a osteggiare la sua relazione, preferisce allontanarsi dai familiari per poter accogliere la sua amata appena sarà possibile. Il 3 aprile giunge il nulla osta della prefettura della città piemontese, probabilmente caldeggiato da Zamboni, e il 28 aprile Maria e Icilio arrivano, dopo tanti patimenti, in una casa vera, muniti di foglio di via obbligatorio rilasciato dalle autorità di PS di Salcito. Tuttavia nei confronti della molisana è disposta una rigorosa sorveglianza.
Lodovico lavora come tipografo e la vita va avanti normalmente. Il 7 marzo del 1932 nasce un bel bambino che chiamerà Anteo, come il fratello defunto.
Una grande amarezza attende, però,  la neomamma. Infatti, il padre di Lodovico preme perché il figlio ritorni a Bologna per riprendere l’attività tipografica. Egli finisce per accettare, ma nella sua città non può o non vuole portare con sé il figlio dell’ “altro”. E così, con la morte nel cuore, la molisana si separa da Icilio e lo invia prima a Cerignola dalla sorella, poi, più vicino a lei, in un collegio a “Faenza”. Una scelta dolorosa che Maria non perdonerà mai al suo compagno anche perché addolorata dalle condizioni di incuria in cui viene tenuto Icilio, che tenta in varie occasioni di fuggire dall’”Istituto degli artigianelli studio e lavoro” a cui è affidato. Infatti, nel 1936, esasperata, riprende contatti con il marito affinché lo prenda con sé a Mosca. Ma Di Modugno le risponde: «oggi par d’esser troppo tardi », parole che la dicono lunga e che fanno capire la sua situazione esistenziale ormai compromessa.
Sergio Di Modugno, infatti dopo aver raggiunto la Russia nel 1929 lavora dapprincipio nella fabbrica di macchine agricole di Rostropov, ma ben presto cade nelle maglie del ben più spietato apparato repressivo staliniano. In Unione Sovietica il pugliese, infatti, non aveva capito di aver a che fare con un regime anche più feroce di quello lasciato in Italia e, come sempre, si era battuto per le ingiustizie subite, svelando pubblicamente le sofferenze e le angherie cui venivano sottoposti gli operai russi e italiani. Per questo era stato segnalato dai dirigenti del PCI come elemento ostile e, nell’ottobre del 1937,  arrestato e poi deportato in Siberia dove sembra sia morto di stenti scontando la pena.
A proposito di questo personaggio fuori dai ranghi, il giornalista Giancarlo Lehner racconta su “Il Giornale.it” che, nel gulag, egli prese fieramente le distanze dagli inquisitori, cucendosi le labbra con un ago da calzolaio dicendo: «Con voi non parlo. Punto».
La Ciarravano, fino alla fine della guerra, continuerà a subire controlli. Infatti, nel 1937 viene inclusa nell’elenco degli “attentatori o capaci di atti terroristici” e lo stesso anno fermata dal 16 al 19 ottobre, in occasione della visita del re a Bologna e poi, nel 1938, inclusa nella "3a categoria", quella delle persone considerate politicamente più pericolose, e di nuovo fermata in occasione della venuta di Hitler in Italia. Maria Ciarravano, dopo il crollo del regime fascista entra nell’ombra. Muore nel 1965 in seguito a lunga malattia. Il secondo marito, Lodovico Zamboni, diverrà giornalista e, successivamente, si risposerà.
Una vita, dunque, difficile quella vissuta da Maria Ciarravano,  che fin da ragazza si è battuta con convinzione contro tutte le ingiustizie in un periodo oscuro dove la norma era tacere, obbedire, dissimulare. Non solo ha rischiato la propria vita ma si è sempre sentita libera di amare senza i freni morali imposti dalla società del suo tempo, freni che sono stati spazzati via solo negli ultimi anni dalle attuali generazioni.
Barbara Bertolini Annamaria Cenname©2015 tutti i diritti riservati.

Note e Bibliografia:

“Corriere degli italiani”, anno 7 n. 168 del 14 settembre 1927 (esce a Parigi perché il fascismo ha soppresso in Italia la libertà di stampa).
GRIMALDI G.A., L’ora tragica, “Corriere degli italiani”, anno 7 b. 169 del 15 settembre 1927.
“Corriere degli Italiani”, anno 7, n. 177, 24 settembre 1927, Come Di Modugno si difende dall’accusa di premeditazione.
CANEPA Gian Battista, Le cronache di una vita, A.G.I.F., Genova 1983.
FABRE Giorgio, Roma a Mosca. Lo spionaggio fascista in URSS e il caso Guarnaschelli, ed. Dedalo, Bari 1990.
LUSSU Emilio, La catena, a cura di Mimmo Franzelli, Baldini et Castoldi, Milano 1997.
DALLA CASA Brunella, Attentato al duce, Il Mulino, Bologna 2000.
CARIOTI Antonio, Di Vittorio, Il Mulino, Bologna 2004.
DUNDOVICH E., GORI F., Italiani nei lager di Stalin, Gius. Laterza & figli, 2006.
DILEMMI Andrea (a cura di), Giovanni Domaschi, Le mie prigioni e le mie evasioni, Cierre edizioni, Verona 2007.
LEHNER Giancarlo, L’onor di Cesare e le colpe di Milano, Il Giornale.it 15 settembre 2010.
Dizionario Biografico, Gli antifascisti, i partigiani e le vittime del fascismo nel bolognese (1919-1945), a cura di A. Albertazzi, L. Arbizzani, N.S. Onofri, Istituto per la storia di Bologna.
Archivio Centrale dello Stato, Confinati politici, ad nomen.

Internet:
http://bfscollezionidigitali.org/index.php/Detail/Object/Show/object_id/1144
https://libcom.org/history/domaschi-giovanni-1891-1945




4 commenti:

  1. Ecco un esempio altissimo di donna straordinaria per personalità e coerenza, determinata e coraggiosa oltre ogni dire, dipinta magistralmente in questo affresco che intreccia molto efficacemente la microstoria con la Storia dei grandi eventi, quella particolarmente intricata del periodo fascista e bellico. Che dire? Grazie di cuore alle due ricercatrici che si sono imbarcate in questa impresa non facile, riuscendovi pienamente. Brave!

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    1. Grazie, anche da parte di Anna Maria che ha curato la ricerca ed è riuscita a scovare materiale inedito che ha permesso di fare piena luce ed arricchire questa storia davvero straordinaria. Barbara

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  2. Bravissime Bartolini e Frattolillo. Come nipote di Maria conoscevo per sentito dire da mio padre solo alcune cose della sua vita appassionata e travagliata. Sofferenze e passioni troppo fresche per parlarne allora. Da giovane ho conosciuto Maria, Ludovico e mio cugino Anteo che venivano da Bologna a trovarci a Roma. La zia ricordo che non veniva volentieri perché diceva che a Roma "erano tutti pescecani".

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  3. Sono una pronipote di Sergio Di Modugno, marito di Maria Ciarravano. Dove posso provare più notizie, oltre quelle già pubblicate, visto che Togliatti, che mio conosceva personalmente, anche attraverso Giuseppe Di Vittorio, compaesano, consigliò mio nonno di astenersi dal chiedere ancora informazioni sul fratello? E il deputato Giancarlo Lenher da quale fonte ha ricavato l'episodio nel quale descrive, ciò che in famiglia già si raccontava, di Sergio che si cuciva la bocca ( letteralmente) pur di non rispondere ai giudici sovietici?

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