Due giornaliste, con alle spalle 20 anni di ricerche biografiche, hanno deciso di concentrarsi sul variegato mondo femminile, così poco studiato fino a non molto tempo fa e che la storia ha spesso relegato nel dimenticatoio...

giovedì 29 gennaio 2015

Altabella di Sangro


(Molise, 1430? – Mantova, 1465), nobildonna rinascimentale, sposa del condottiero campobassano Cola di Monforte


Donna Abenante passò il pomeriggio a esaminare personalmente il corredo della figlia primogenita che di lì a poco avrebbe preso la via di Campobasso, feudo del futuro genero, Cola di Monforte.
 A quell’ora il castello era immerso nel silenzio; solo il tramestio soffocato che saliva dalle cucine e lo scalpitare impaziente dei cavalli nella corte dalla parte delle scuderie. Congedato l’arciprete che aveva avuto ospite per certi consigli, ora si poteva finalmente dedicare a quello che le stava a cuore  e le dava pure qualche pensiero. Rimase qualche istante a fissare il busto di marmo che, dalla mensola del camino, sembrava sorvegliare l’ampia sala, poi si decise a prendere le scale.

Giunta in camera da letto, si avvicinò al cassettone di noce intarsiato; lì erano riposti i capi migliori.
I tre materassi di paliocto che aveva promesso dovevano ancora essere riempiti, ma il piumaccio fortunatamente era già pronto. Cominciò ad aprire i pesanti tiretti e contò tredici tovaglie lavorate e tredici di panno sottile; poi una camicia trapunta d’oro, una di seta e oro, un’altra tutta di seta, due ricamate con filo e quattro di panno sottile; due paia di lenzuola. A quel punto, si sedette pensierosa sulla cassapanca di legno dipinto ai piedi del suo letto.
Due paia di lenzuola erano davvero poche,  e non voleva sfigurare con i consuoceri… Chissà, forse guardando meglio tra la sua biancheria avrebbe trovato qualche lenzuolo ricamato ancora nuovo da aggiungere a quei panni così poco sfoggianti.
A quel pensiero, ebbe come un moto di ribellione: ma che le saltava in mente?
Lei, donna Abenante di Attendolo, figlia dei conti di Cotignola, aveva passato anni così neri che per poco non aveva dovuto  rinunziare ai comodi del suo rango! Aveva  dovuto, per necessità, dare fondo fino all’ultima cammisa della sua dote…! Ma adesso, finalmente la malasorte era finita.
Tutto merito di suo marito Paolo di Sangro, che  era passato giusto in tempo dalla bandiera di Renato d’Angiò a quella di Alfonso d’Aragona, e pazienza se questo gesto gli era costato l’amicizia e il rispetto di Antonio Caldora; il suo vecchio compagno d’armi alla prima occasione senza troppi giri di parole lo aveva insultato chiamandolo traditore. Però, dopo il trionfo dell’aragonese, Paolo si era visto lautamente ricompensato con quattro terre e una buona condotta di gente d’armi. Aveva fatto proprio bene, suo marito,  quando era passato dalla parte di Alfonso I, a far sistemare in bella vista, sul prospetto del castello angioino di Civita, un bello scudo sostenuto da un grifone nel quale i gigli angioini figuravano capovolti…
Castello di Civita
Adesso, continuava tra sé e sé donna Abenante, che non si risolveva ad alzarsi dalla panca, potevano contare anche sulle entrate di Torremaggiore e San Severo.
Peccato dover rinunciare ai 205 ducati della rendita di Ferrazzano, che ormai da tre anni toccavano al futuro genero, come stabilito nei capitoli matrimoniali concordati nel 1447.
All’idea dei nuovi  feudi che il giovane Cola, figlio di Giovanna di Celano e di Angelo di Monforte Gambatesa, avrebbe portato in famiglia dopo le nozze con Altabella, fissate per il 21 novembre 1450, donna Abenante non poté trattenere un sospiro di soddisfazione. Il seno abbondante stretto sotto il corpetto  della veste da casa sussultò, i suoi occhi scuri ebbero uno scintillìo.
 Sì, sua figlia era proprio fortunata!
Infatti Nicola, o, come lo chiamavano, Cola, pur così giovane, già si trovava una cospicua  eredità, perché era l’unico maschio di tutta la sua gente nella nuova generazione: lo zio Carlo aveva tre figlie, la zia Vandella non aveva prole, e pure il prozio, Riccardo di Gambatesa e Mirabello, aveva  due figlie femmine. Quando poi il padre di Cola, Angelo, ormai prossimo alla fine per via di quella terribile lebbra, avrebbe reso l’anima a Dio, gli sarebbe toccata l’eredità e il titolo paterno. E, cosa che non guastava, Cola era uscito dalla scuola del Caldora, come suo marito Paolo e suo figlio Carlo, e già si parlava di lui con timoroso rispetto  per la destrezza che dimostrava nel maneggio delle armi e  per la fierezza del carattere.
Poco prima del suo matrimonio, il “domicello” Cola  successe al padre deceduto nel titolo di conte di Campobasso e, quindi, poté trattare direttamente col Di Sangro i capitoli già firmati, procedendo alla stipula del contratto nuziale. Stipula che avvenne nel castello di Civitacampomarano, un borgo arroccato su una cima montuosa a 16 miglia da Campobasso, alla presenza dei vescovi di Trivento e Guardialfiera, dei baroni di Sanframondo e di Eboli, di alcuni notabili convenuti anche da Campobasso, tra cui un dottore in legge e tre arcipreti.

Quando Altabella, «magnifica damicella, filia legitima et naturalis domini Pauli di Sangro», vide Cola, i tratti forti del volto incorniciato da lunghi riccioli castani, passo deciso e fisico prestante, non poté fare a meno, in cuor suo, di condividere il giudizio a dir poco lusinghiero espresso dalla madre.
 Presto fu soggiogata dal  forte temperamento di lui,  che da ogni gesto lasciava trapelare orgoglio  misto ad ambizione. La ragazza entrò in uno stato di euforia al pensiero del  futuro pieno di promesse che le si apriva davanti.
Avrebbe finalmente detto addio  all’esistenza grigia e chiusa che aveva condotto tra le mura del suo castello; l’aspettava una nuova vita, a Campobasso; ma, soprattutto, era ansiosa di vedere Napoli, perché sicuramente avrebbero svernato nella capitale, dove  lo sposo possedeva  una dimora, indispensabile per chi aveva necessità di stare il più possibile nella cerchia del re; a Napoli, si esaltava Altabella,  avrebbe frequentato la Corte,  sarebbe stata accolta dalle altre dame e dai cavalieri del loro rango come si conveniva, con tutti gli onori.

Il matrimonio fu celebrato in una tiepida giornata novembrina con solennità, secondo l’uso «per cultellum flexum» , «intra dominos, proceres, nobiles et magnates»del Regno. Consegnando alla sposa, a garanzia della corretta esecuzione dei patti matrimoniali, un simbolico coltello a serramanico che lei avrebbe aperto,  Altabella,  diveniva con quel gesto investita dal consorte Cola quale signora dei beni mobili e immobili, liberi e feudali.
La nascita di due figli maschi, Angelo e Giovancarlo, che crescevano  sani e  forti, allietò di lì a poco  la famigliola.
Certo, Altabella avrebbe preferito un marito meno irrequieto, e perciò accolse con grande soddisfazione la nomina di Cola a governatore delle provincie dell’Abruzzo, nel 1458.
Ora,  si diceva  la donna per confortarsi,  la vita troppo movimentata di Cola avrebbe conosciuto una tregua, anche perché re Ferrante non perdeva occasione per tirarlo dalla sua parte.
L’alta considerazione del re era evidente persino nelle lettere, che egli intestava allo «Spectabili et magnifico viro Nicolao de Monforte, alias de Gambatesa, comiti Campibassi, consiliario fideli nostro dilecto».
Castello Monforte
Ma la contessa dové presto disilludersi.
Sfortunatamente, poco dopo essersi insediato in Abruzzo, Cola cominciò a dare segni di distacco da Ferrante. L’arrivo della flotta di Giovanni d’Angiò alle foci del Volturno, nell’ottobre del 1459, spazzò definitivamente via le ultime incertezze del conte, che,  sperando in un suo Stato col favore dell’angioino, fece aperta defezione.
 Il suo orgoglio lo spinse persino a battere moneta per suo conto, senza chiedere autorizzazione al re, gesto che indicava fuori ogni dubbio aperta disobbedienza.
Forse ad influenzare la decisione di Cola pesò anche il “cainato” Carlo di Sangro, fratello “germano” di Altabella; così, almeno, re Ferrante asserisce nelle sue missive.
Altabella con voce rotta cercò allora di dissuadere con ogni mezzo il marito. Gli confidò tra le lacrime un atroce presentimento che le impediva il sonno ormai da diversi giorni: la discesa del pretendente angioino al trono di Napoli avrebbe segnato l’inizio della rovina per lui, che, fino a quel momento, seguendo la politica di famiglia, era rimasto sempre fedele alla casa d’Aragona.
 Purtroppo le più nere previsioni della contessa trovarono conferma: Cola non solo ospitò Giovanni con tutti gli onori nel castello di Campobasso appena ristrutturato  dopo il devastante terremoto del 1456, ma sui suoi pennoni, accanto alla stendardo con la croce rossa in campo d’oro dei Monforte, fece alzare il drappo azzurro degli Angiò gigliato d’oro, segno inequivocabile della ribellione a Ferrante d’Aragona.
Ancora non contento,  guidò pure l’angioino fino alla Puglia.
Le operazioni militari furono a lungo intramezzate dai negoziati con i riottosi, finché lo scontro armato, nelle campagne di Troia, il 18 agosto 1462, ridusse definitivamente a mal partito Giovanni d’Angiò e i suoi fautori. Dopo l a sconfitta, il pretendente angioino rientrò precipitosamente dal padre Renato, in Provenza, lasciando il Campobasso (così veniva chiamato Cola) solo e senza mezzi, alla mercé dall’Aragonese vincitore sul trono. Trepidante e angosciata, la contessa  viveva ora nell’incubo della vendetta del vincitore, Ferrante.
Vendetta che non si fece aspettare, perché tra i ribelli solo Cola non si arrese.
Egli fece invadere le terre del conte, saccheggiando e bruciando ogni cosa. Dopo le battaglie che fecero cadere ad una ad una San Martino, Montorio e Pontelandolfo, Cola fu lasciato dal  vincitore «denudato dei molti suoi lochi, ché pochi ne tiene e rimarrà anche meno», scrive benedetto Croce.  
Anche Campobasso finì nel demanio regio, e le angustie economiche divennero tanto insostenibili, che toccò addirittura vendere alla zia Vandella il feudo di Gambatesa.
 Intanto, Ferrante preparava la sua trappola, fingendo di accordarsi con il ribelle; ma Cola, che conosceva di che pasta era fatto il suo regale avversario, non ci cascò.
 Così, tra la fine di giugno e i primi di luglio del 1464, i Monforte ordinarono ai famigli di raccogliere lo stretto necessario, e, scortati da pochi uomini fidati, si allontanarono in tutta fretta dal Regno, per sottrarsi all’ira del re aragonese.

 La meta della famigliola in fuga è la lontana, sconosciuta Mantova, perché è dal marchese Ludovico Gonzaga che Cola ha ricevuto una promessa di aiuto.
La sofferta decisione di partire era maturata dopo mille tentennamenti, alla fine di un periodo che era sembrato un incubo.
 Fino all’ultimo, Altabella aveva sperato con tutte le sue forze di poter scongiurare quel terribile momento. Oltre al dolore che provava all’idea di abbandonare il suo mondo, la opprimeva l’incertezza del futuro. Ancor più l’allarmava la profonda stanchezza che aveva letto negli occhi di Cola, che sembrava reduce da una lunga malattia.
Durante l’interminabile viaggio attraverso contrade mai viste, con la paura di essere assaliti, derubati o addirittura uccisi  dietro ogni curva, era impossibile, per la contessa,  tentare di rilassarsi , magari scorrendo con  lo sguardo le distese dei campi o la sagoma ondulata delle colline che delineava l’orizzonte. La sua mente vagava, angustiata, assalita da mille dubbi,  smarrita tra mille domande che non trovavano risposta. Che cosa l’aspetta? Come sarà il nuovo ambiente? In che modo l’accoglieranno a corte, ora che il marito è caduto in disgrazia?
Era l’alba, il velo della notte si era appena diradato portando via paure e incertezze, quando ai suoi occhi  apparve, come in un miraggio, il nastro argenteo del fiume che si snodava sinuoso e, in lontananza, il profilo dei tetti cominciò a materializzarsi in mezzo ad una sottile pioggerella. La cinta muraria, e poi la porta della città: finalmente erano arrivati!
Spossata e amareggiata, mise piede a Mantova. Le tempie le battevano per la tensione.
 Facendo leva sulla sua dignità, la giovane contessa riprese il  controllo e, dopo essersi resa presentabile, fu ricevuta con i suoi alla corte dei Gonzaga, consapevole che ormai il marito era «un uomo decaduto da potenza sociale e politica, profugo dalla patria, ridotto a guadagnarsi il pane da soldato di ventura».
La famiglia Monforte trovò una sistemazione adeguata al proprio rango nel castello di Revere.
In piedi davanti alla finestra, Altabella  passava le ore immersa nei suoi pensieri, mentre  seguiva il fluire pigro delle acque verdastre del Po, maestoso tra le rive costeggiate di alberi. L’accoglienza che aveva ricevuto a Corte era stata cortese, ma fredda. Quanta fatica per adattarsi  a quella terra straniera, tra gente con altre usanze, e che parlava un’altra lingua…
Certo, per anni aveva sognato una Corte come quella, fastosa e raffinata; al confronto il castello Monforte sfigurava parecchio, era una dimora  spoglia, completamente priva di comodi. Ma ora che le illusioni erano cadute, lei rimpiangeva quella vita austera, semplice, forse un po’ rozza, ma certamente schietta, dove ognuno diceva quel che il cuore dettava.
Lì a Mantova, invece, non riusciva a cancellare l’impressione che il sorriso delle dame mascherasse una malcelata curiosità mista a compassione… Anche in chiesa, la domenica, si sentiva osservata con insistenza dalle persone raccolte nella penombra per la funzione religiosa.
Mai come allora aveva sentito il bisogno della forte presenza di Cola; con lui al fianco, si sarebbe sentita meno disorientata, meno insicura.
Invece, poco dopo la loro sistemazione, egli partì per la Francia, in qualità di capitano e condottiero per gli Angioini. Era naturale, a quell’epoca,  per i capitani di ventura vendersi al migliore offerente. Anche Cola, di famiglia guerriera e allevato con la consapevolezza che la vera e principale ricchezza su cui fare assegnamento fosse la spada, fu condottiero e capitano fino alla fine. La sua fama (“experto tam in Italia quam ultra montes”) guadagnata sui campi di battaglia era tanto grande,  che, alla morte del Colleoni, il Senato veneziano il 18 marzo 1477 aprirà con lui le pratiche per una buona condotta; ed era così sicuro del peso del suo nome, che chiese  a Lorenzo dei Medici di collocare il figlio Angelo come condottiero sotto la bandiera medicea.
 La sua nuova partenza, ora,  significava per Altabella  soprattutto una cosa: affrontare completamente da sola le difficoltà della  vita che le si presentava.
Non poteva neanche contare sulla presenza (sul conforto, neanche a pensarci!) dei figli, che erano rudi come il padre, e come lui presi unicamente dal pensiero delle armi.
Le settimane divennero  mesi che scorrevano lenti e sempre uguali, solo qualche messaggio inviato da Cola, ogni tanto, dalla Francia.


Un giorno, come svegliandosi da un lungo torpore, la contessa si rese conto che la sua presenza, a Mantova, non era solo oggetto di curiosità. Ad una donna non sfuggono certe occhiate eloquenti, e qualcuno si era spinto fino a sussurrarle dei complimenti audaci. In ogni caso lei, ricordandosi degli insegnamenti materni, aveva sempre risposto con lo sguardo basso e  il silenzio.
Mantova
«Ignoriamo in quali condizioni e tra quali angustie, stenti e insidie la disgraziata donna e i figli fossero rimasti in quell’esilio», asserisce Benedetto Croce,  ma ecco che un giorno imprecisato del 1465 Cola rientra a Mantova dopo una delle tante campagne militari. Qui gli giungono all’orecchio voci  insistenti di una condotta riprovevole di Altabella, accusata di essere vissuta poco onestamente, mancando alla fede coniugale.
Cupo quanto improvviso fu il rumore della tragedia: la contessa si trovava nei suoi alloggi quando cadde nel sangue, vittima della feroce, repentina reazione del marito.
Quell’uomo che tante altre donne le avevano invidiato quando si era fatto avanti per chiedere la sua mano, ora la strappava alla vita e agli affetti. Non lo sfiorò nessun dubbio sulla fondatezza delle dicerie, non ebbe nessuna pietà per la madre dei suoi figli.
 La lama era affondata più volte con violenza in quel corpo ancora così giovane, colpendolo a morte.
 Macchiandosi di uxoricidio,  il conte suscitò una forte repulsione persino nei suoi alleati, i francesi, che non avrebbero mai  punito un’adultera  con la morte. Essi  avevano l’abitudine, meno cruenta ma non per questo meno crudele, di restituire la donna ai genitori. Ripresa nella casa paterna, era spogliata della dignità matrimoniale, e, così degradata, veniva addetta alle più basse mansioni domestiche.

Non sapremo mai se quella infedeltà fosse stata effettivamente consumata, né si conoscono i particolari del delitto, sul quale le cronache del tempo e gli storici hanno calato un fitto velo.
Si accenna solo ad un uxoricidio efferato, eseguito dallo stesso Cola (che sopravvisse alla moglie tredici anni) oppure da sgherri assoldati dal coniuge oltraggiato e geloso.
Quel che è certo, è che dopo quell’oscuro fatto di sangue, della contessa di Sangro non si fa più parola, quasi che fosse stata inghiottita nel nulla da quella medesima Storia che l’aveva vista al fianco di uno dei condottieri più rappresentativi del Quattrocento italiano.
Rita Frattolillo©2015

Bibliografia
Benedetto Croce, Cola di Monforte conte di Campobasso, Università degli studi del Molise, 2001.
Vincenzo E.Gasdia, Storia di Campobasso, v.II, Verona 1960.
Alessandro Kalefati, Dissertazione istorico-critica della famiglia Monforte dei conti di Campobasso,  rist.anastatatica, Campobasso 2013.


1 commento:

  1. Complimenti Rita! Leggere i tuoi pezzi è come fare un volo sulle trame storiche di primavere vissute nei secoli, ma ancora oggi attuali per contenuti. La freschezza narrativa aiuta la comunicazione e la divulgazione.Alma

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