Due giornaliste, con alle spalle 20 anni di ricerche biografiche, hanno deciso di concentrarsi sul variegato mondo femminile, così poco studiato fino a non molto tempo fa e che la storia ha spesso relegato nel dimenticatoio...

venerdì 14 marzo 2014

Suor Giulia DI MARCO

Napoli nel '600
di Rita Frattolillo

(Sepino, Molise verso il 1574/75 – Roma ?) Congrega sessuale nella Napoli del ‘600


Donna dalla mente diabolica o vittima di un castello di menzogne? Questo personaggio femminile vissuto nel lontano 1600, per definire il quale  sono stati usati e abusati aggettivi come “boccaccesco, machiavellico”, è approdato nientemeno che nell’enciclopedia Treccani e gira su internet tra le “pulcinellate” napoletane. Eppure la sua vicenda ingarbugliata è raccontata da un’unica fonte, coeva ma di penna teatina ignota, fatto che lascia avanzare legittimi dubbi sulla sua attendibilità, sull’effettiva oggettività storica del documento, che, in ogni caso, avrebbe dovuto essere studiato con la massima cautela e le maggiori riserve.  Si tratta della Istoria di suor Giulia Di Marco e della falsa dottrina insegnata da lei, dal padre Aniello Arciero, e da Giuseppe De Vicariis, resoconto, come s’è detto, di un teatino, e di cui si conoscono diverse varianti (con minime differenze). Purtroppo, però, i teatini, per i motivi che vedremo, erano nemici giurati di Giulia, e furono probabilmente loro i maggiori responsabili della disgrazia della “santona”.

 Tra coloro che si sono occupati di questa torbida storia, ci piace menzionare, per le opposte opinioni, Benedetto Croce, secondo cui quella di Giulia fu una vicenda di eresia, e l’erudito napoletano Francesco Nicolini. Quest’ultimo parlò invece di una “spudorata ciarlataneria”, talmente grave da arrivare a giustificare ai suoi occhi la prigionia perpetua che colpì la donna, che viene definita con l’espressione fortemente dispregiativa di “scortum vetus”.

Misoginia e sessuofobia sembrano, comunque, a tutt’oggi tra gli ingredienti principali che caratterizzano la vicenda di suor Giulia Di Marco da Sepino. Della quale forse non si saprà mai fin dove arriva la verità e da dove iniziano le falsità e le menzogne.
La storia intricata e inquietante di questa donna, di cui è tuttora difficile capire la vera matrice, rimane uno dei capitoli più nebulosi della Napoli seicentesca: la congrega sessuale messa in piedi da Giulia si basava su pratiche demoniache, su riti sessuali a  sfondo misterico da sempre diffusi in area partenopea, o si trattava di gruppi di potere cementati dalle pratiche sessuali?

I fatti si svolgono nello scenario della Napoli vicereale, percorsa dalle trasformazioni ideologiche e comportamentali generate dal clima della Controriforma. La Riforma cattolica, che aveva reagito con il Concilio di Trento (1545-1563) alla dottrina di Calvino e a quella di Lutero, si fondava su un rinnovamento della vita ecclesiastica (e spirituale) che passava necessariamente attraverso un processo di riorganizzazione della Chiesa. L’esigenza di rinnovamento era già avvertito da tempo, tant’è che prima che fosse indetto il Concilio,  erano sorti i chierici regolari teatini, fondati nel 1524 da san Gaetano di Thiene e da Gian Pietro Carafa, vescovo di Chieti (in latino Teate, da cui il nome), futuro papa Paolo IV. Poco dopo, essi diedero vita all’Ordine dei teatini: la  casa generalizia dell’Ordine era la chiesa di S. Andrea della Valle a Roma. A Napoli, i teatini presero come sede la basilica di S. Paolo Maggiore. Sotto la loro direzione ebbe inizio il Monte di Pietà, che diede origine al Banco di Napoli. Nella città partenopea circolavano pure gli insegnamenti dei teologi antitrinitari senesi  Socini (o Sozzini), come pure si era fatta sentire l’influenza dei “criptoluterani”di Juan de Valdes. Era dunque questa, l’aria che tirava negli ambienti napoletani quando i teatini dovettero essere - per la prima volta - impiegati in funzione antiereticale.
 Suor Orsola Benincasa (Cetara, 1547- Napoli, 1618) era assurta a loro protetta, ma solo dopo che la donna, accusata di stregoneria dall’Inquisizione nel 1581, era stata scagionata e dichiarata venerabile dal papa in persona. Il fatto è che nel XVI secolo si era diffuso, specie al Nord dell’Italia, il fenomeno delle “sante vive”,  espressione delle attese profetiche della Riforma, e Orsola era per l’appunto un prototipo di santità femminile, anche se il vero modello da imitare rimaneva  Santa Caterina da Siena.

 Tuttavia la Chiesa Tridentina era contraria alle sante laiche, come pure alle terziarie, perché le une e le altre sfuggivano al controllo dell’autorità ecclesiastica. La quale, se intendeva distruggere qualcuno, aveva in mano lo strumento temibile dell’Inquisizione, del Sant’ Uffizio, che era bene attrezzato per fare confessare a chiunque qualunque crimine. E’ in questo contesto che si colloca la storia di Giulia Di Marco, nata nel 1575 a Sepino, un paese della Contea di Molise, alla periferia del regno di Napoli, che contava 416 fuochi (corrispondenti a circa 2500 abitanti), feudo del principe Scipione Carafa.
 Primogenita di una famiglia di poveri braccianti, aveva ereditato dalla nonna materna, una schiava turca, occhi penetranti e una fluente chioma scura. Fino ai dodici anni fu allevata a polenta, minestre e pane impastato con frumentone e patate, conditi con dosi massicce di ignoranza e superstizione. La morte per tifo del padre Tommaso costrinse la madre  “carica di figli” ad “affidare” la ragazza ad un mercante campobassano, che chiamavano Cavaiuolo perché originario di Cava dei Tirreni (Salerno), sposato e senza figli.

Giulia  ingoiò alla svelta il dispiacere per il distacco dalla famiglia, e, superato il disorientamento che comportava la nuova sistemazione, si diede da fare per disimpegnarsi con solerzia di tutte le mansioni affidatele, in modo da guadagnarsi l’affetto dei suoi padroni. Tutto filò liscio fino al 1592, quando, morto il Cavaiuolo, la vedova si ritirò a Napoli. Dalla piccola realtà provinciale Giulia si trovò improvvisamente catapultata nell’ambiente tumultuoso e corrotto della capitale del viceregno. La città aveva raggiunto la massima espansione urbanistica per volontà del viceré don Pedro di Toledo, il quale, anticipando la strategia politica adottata da Luigi XIV, aveva attirato a Corte le più potenti famiglie feudali, allo scopo di  prevenire tentativi di fronde contro il governo spagnolo.

 Ormai giovinetta, Giulia si innamora di uno staffiere, che, appena informato della prossima paternità, sparisce dalla circolazione, lasciando la ragazza in preda alla disperazione. Il neonato, a cui la ragazza impose il nome di suo padre, Tommaso, fu portato per volontà della padrona alla Ruota degli esposti dell’Annunziata, dove sarebbe stato preso in custodia dalle monache. La Ruota, come si sa, era una piccola piattaforma in legno posta in una finestrella praticata nel muro perimetrale di una chiesa o di un convento, e lì il “figlio della colpa” veniva intromesso dalla madre. La Ruota  di Santa Maria dell’Annunziata  portava incisa, poco sopra alla finestrella superiore, la scritta: “O padre e madre, che qui ne gettate, alle vostre elemosine siamo raccomandati”. Giulia non si dava pace per il distacco forzato dal figlioletto; finalmente riuscì a farsi prendere come balia nel Brefotrofio dove era stato preso Tommaso. Trovò così il modo di vederlo, di stargli vicino. Arrivò a confessare la sua pena al governatore della Casa, pregandolo di proteggere Tommaso anche in futuro. Poco dopo questi fatti, Giulia è colpita anche dalla perdita della sua padrona-benefattrice. La ragazza si dà allora ad una intensa vita spirituale, intessuta di preghiere e di pratiche devote, mostra vita esemplare, matura a poco a poco la decisione di indossare il cingolo del terzo Ordine francescano. Ben presto la sua condotta desta ammirazione nel suo padre spirituale, nel popolo; i benestanti se la contendono, la ospitano, provvedono largamente alle sue necessità, la voce della sua santità si comincia a spargere, cresce. A quell’epoca esisteva la figura della “monaca di casa”, che il più delle volte non era neanche una vera suora, ma una donna pia e devota, una “vezzòca” (bigotta) considerata vicina alla santità. Per questo era molto richiesta nelle famiglie patrizie, che, accogliendola in casa, erano convinte di acquisire meriti presso Dio  e ottenere più facilmente il perdono per i loro peccati. La fama di santità di Giulia è già  solida quando muore il suo padre spirituale, verso il 1603. Poco dopo,  si assiste ad una svolta nella vita della terziaria.
La ruota degli Espositi dell'Annunziata a Napoli


E’ il 1605 quando Giulia  conosce un altro confessore, padre Aniello Arciero, di Gallipoli, figlio di uno “scarparo” siciliano, nonché frate dell’Ordine degli Infermi, ordine fondato qualche anno prima da san Camillo De Lellis allo scopo di assistere i malati. La donna lo  prende come  padre spirituale. Il frate ha 31 anni, è dotato di bella presenza, ed è popolare per la sua eloquenza.

 I due, entrambi giovani e ardenti, cominciarono ad entrare in confidenza, e non ci volle molto perché dalle parole passassero ai fatti.  Padre Aniello iniziò col “toccare quel suo corpo tutto  ignudo, e trattare con lei in diversi modi varie azioni carnali”, per poi arrivare all’accoppiamento. Lui probabilmente aveva orecchiato gli insegnamenti dei Socino. I Socini, senesi, erano dei riformatori che mettevano in dubbio l’autorità del pontefice e la validità del sacramento dell’Eucaristia. Inoltre,  prendevano alla lettera l’ insegnamento “Amatevi gli uni con gli altri” degli scritti Sacri. Insomma, Aniello si convinse che il commercio carnale dell’uomo e della donna  non era peccato, e che era stato vietato dai pontefici solo perché lucravano celebrando matrimoni. Aniello indusse Giulia ad acquisire quelle idee sballate, pretendendo di estendere la “dottrina” ad altri.

Ma  la donna tentennava per timore dell’Inquisizione, e intanto raccontava di avere visioni mistiche. La sua credibilità di santa aumentò non solo presso il popolino, ma anche presso la migliore nobiltà napoletana. Allora il crocifero ebbe un’altra idea: rivelarle le confessioni dei suoi penitenti più in vista, in modo che Giulia, intrattenendosi con essi, potesse esibire la sua miracolosa capacità di leggere negli animi. Il sistema diede i suoi frutti, e la donna vide crescere ancora di più la sua popolarità di santa. Al gruppo si unisce  a questo punto anche un avvocato, uno spirito brillante, secondo i contemporanei, Giuseppe De Vicariis, gentiluomo di Arienzo (Caserta) caduto in povertà, considerato l’ideologo della “congrega” e del meccanismo messo in atto per adescare gli adepti.

Mentre si estende a macchia d’olio la nuova dottrina sessuale, e la nobiltà napoletana credulona e gaudente, credendo di fare atto meritorio gradito a Dio, pratica generosamente la “carità carnale” nella casa stessa della “santa”, il tribunale napoletano del Sant’ Uffizio, insospettito dall’eccessivo chiasso intorno a Giulia, nel 1607 avvia un’indagine, probabilmente anche dietro istigazione dei teatini, preoccupati da un confronto che poteva oscurare la fama di Orsola Benincasa, che in quegli anni era ancora vivente (morirà nel 1618). L’esito dell’indagine decise l’inquisitore a far rinchiudere Aniello nel convento della Maddalena di Roma con l’obbligo di non fare più ritorno a Napoli, mentre Giulia venne isolata e rinchiusa nel monastero napoletano di Sant’Antonio di Padova. Ma poi, per calmare l’agitazione che il suo culto suscitava in città tra il popolo, fu deciso di mandarla a Cerreto Sannita. Pure il  nuovo confessore, il teatino Ludovico Antinoro, si convinse della sua santità, e del resto gli interrogatori del Santo Uffizio non avevano portato a nulla. Il 1 ottobre 1610 fu consigliato il nuovo trasferimento di Giulia a  Nocera, dove sarebbe stata meglio sorvegliata. Invece il suo arrivo fu uno smacco per i suoi detrattori, e un vero trionfo per lei, una glorificazione: campane a festa, popolo inginocchiato al suo passaggio, pronto a ricevere la benedizione, accoglienza riverente persino da parte della viceregina, la contessa di Lemos. Quando Giulia andava in chiesa, le nobildonne le offrivano la carrozza più sontuosa, il popolo faceva ala al suo passaggio, e lei, con fare serio e grave, si faceva baciare la mano persino dai sacerdoti.

Ma non passò inosservato il fatto che “la santa”si comportava all’opposto di quanto prescriveva la Pastorale controriformistica, la quale dettava “obbedienza, modestia, controllo dei gesti, dei discorsi, esame di coscienza”. L’accoglienza fu tale che molti la paragonarono al rientro trionfale a Napoli di Orsola Benincasa, dopo essere stata scagionata dall’accusa di stregoneria.

 Arriviamo così al 1614, quando i teatini, non sopportando oltre il confronto con la popolarità della loro protetta, fecero incontrare le due donne – scrive F.M. Maggi, biografo di Orsola. Lo scopo era di verificare l’origine diabolica o meno della  santità della rivale, come era costume all’epoca.

Forse non sono molti a sapere che il dualismo diavolo/santo era talmente forte e sentito, che la stessa santa Teresa d’Avila (1515-1582) fu accusata dai suoi confessori e da alcuni gesuiti di essere posseduta dal demonio. E che fu il francescano Pietro d’Alcantara a rassicurarla. Importante figura della Riforma, scrittrice ( “Il castello interiore” tra gli scritti principali), riformatrice dell’Ordine Carmelitano, fondatrice di monasteri in Spagna e Portogallo, Teresa è stata per i suoi meriti proclamata beata nel 1610, santa nel 1622, e dottore della Chiesa con Caterina da Siena.

Ebbene, in base a quanto scrive Maggi, Orsola si sarebbe convinta dell’ origine diabolica della santità di Giulia, che  a quel punto pensò bene di mettersi sotto la protezione dei gesuiti. Il declino della terziaria sepinese  diventa allora la posta in gioco di due gruppi di potere rivali: il regno di Napoli e i gesuiti da una parte, i teatini e la corte di Roma dall’altra. Napoli era in subbuglio, i due “partiti” erano mobilitati, nel castello di accuse e falsità si costruivano testimoni  di cui si cercava di scoprire l’identità per poter esercitare rappresaglie di ogni genere. A questo punto entra in scena l’inquisitore domenicano Deodato Gentile, nobile genovese (1558-1616). Commissario generale del Sant’Uffizio dal 1599 al 1604, costui fu nominato vescovo di Caserta e, dal 1610, nunzio a Napoli. In tale veste,  Gentile tagliò corto allontanando per prima cosa gli inquisiti dal loro ambiente, dove erano e si sentivano protetti. Bisognava perciò trasferirli a Roma. Anzitutto fu preso De Vicariis, poi fu di nuovo arrestato Arciero.

Era più difficile prendere Giulia, protetta giorno e notte dai suoi fedelissimi. Riuscirono comunque a catturarla; fu portata a marce forzate a Roma. Il nuovo processo (1614-15) fu di tutt’altro tenore rispetto al primo: si trattava di accreditare la tesi dello sconfinamento nelle pratiche eretiche. E le testimonianze  scoprirono tutto il marciume; gli inquisiti stessi confessarono le loro “sporchizie”, gli incontri sessuali, in cui l’orgasmo era elevato al livello dell’estasi mistica, rivelarono convegni in cui erano selezionati dieci maschi e dieci femmine che, spente le candele, si  accoppiavano.

 Il 12 luglio 1615, nella chiesa di Santa Maria della Minerva a Roma, alla presenza del Sacro collegio dei cardinali e di molti prelati, dei signori e del popolo, Giulia, De Vicariis e Arciero, dichiarati eretici, fecero solenne abiura  e furono condannati al carcere perpetuo; in più, furono condannati alle “penitenze salutari” di due ore di orazioni mentali ogni giorno, di due giorni di digiuno ogni settimana a pane ed acqua, e obbligati a confessarsi e comunicarsi una volta al mese.

Se la cavarono con poco, invece, i nobili seguaci della setta, che erano i nomi più sonori dell’aristocrazia iberico-partenopea: saliti sul palco, dopo aver indossato lo scapolare giallo chiamato san Benito, dovettero semplicemente pronunciare  l’abiura. Il papa ordinò che nel Duomo di Napoli  fossero letti i sommari dei processi – non senza stupore e ammirazione di tutti i presenti - e così fu fatto. Era  il 9 agosto 1615.
© Rita Frattolillo 2014 – Tutti i diritti riservati

Fonti:
L. Amabile, Il Santo Officio della Inquisizione a Napoli, II, Città di Castello, p. 23 sg, 1892.
 A. Arduino, Le congreghe sessuali- Inquietante storia di uno scandalo nella Napoli del 1600, Pref. di P.A. Rossi, E.C.G. Genova 1984, p.23. Si fonda su una delle versioni del  manoscritto originale stilato da un teatino rimasto ignoto: Istoria di suor Giulia Di Marco e della falsa dottrina insegnata da lei, dal padre Aniello Arciero, e da Giuseppe De Vicariiis, n° 243 VIII, F. II- n° 263 VIII, B.45 –n°292 X, B.56  custodito presso la Biblioteca Nazionale di Napoli. Pure: Nicolino Ruotolo, Uomini illustri di Sepino, Montemuro Editore, Matera, 1971.
B. Croce, Aneddoti di varia letteratura, II, Bari, p.134 sg., 1953.
J-P. Sallmann, in enciclopedia online Treccani.it,vol. 40 (voce Giulia Di Marco), 1991.

Nessun commento:

Posta un commento